La morte? Chiamala libertà

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Yoga Journal Italia, per la rubrica di Swami Joythimayananda dal titolo Laboratorio di Ayurveda.

 

Sentire il corpo impercettibilmente trasformarsi, giorno per giorno, rimanda inevitabilmente alla paura che segna tutta la vita: morire. Questa energia spinge le nostre scelte emotive, genera spesso una diffidenza verso il corpo, come se fosse un elemento estraneo al ciclo della vita . Qual è la prospettiva della filosofia vedica e di conseguenza della medicina ayurvedica nei confronti di questo evento certo e definito, la maniera più nobile di dare degna libertà al veicolo che ci accompagna per tutta la vita?

Cos’è l’anima (Atman in sanscrito) nella concezione filosofica vedica?

L’anima è nitya, cioè “pura in sé”. Onnipresenza, unicità e assenza di mutamento sono le proprietà dell’anima pura. Essa non si espande e non si restringe. L’anima pura in sé è senza azione, ma è collegata ai cinque sensi, ai cinque organi motori e alla mente, come l’asse di una ruota che sostiene al centro l’azione tutto ciò che muove intorno.
Attraverso il contatto con il flusso della vita, l’anima può percepire sensazioni come il piacere e il dolore. È corretto affermare che l’anima per vivere si serva del corpo?
Certamente. L’anima prende esperienza continuamente attraverso la mente, i sensi e il corpo; a sua volta, trasmette ciò che percepisce all’intelletto, l’intelletto lo trasmette alla mente, la mente ai sensi e i sensi al corpo. In questo modo il corpo subisce l’effetto dell’anima (attraverso i sensi, la mente e l’intelletto).

Come si può definire la morte?

Dal punto di vista fisiologico, la morte è attualmente considerata come un arresto di attività cardiaca, cerebrale e polmonare. Nella cultura vedica ci sono decine di parole utilizzate per definire la “morte”, in base alla qualità con cui l’anima lascia il corpo.

Ci sono dunque diversi tipi di morte?

Secondo la cultura vedica, la morte può essere di qualità pesante, normale o superiore, leggera. Esistono infatti differenti orifizi nel corpo, ma al momento della morte l’anima esce solo da uno di questi. Ano e genitali, per esempio, sono gli “orifizi inferiori” e quando l’anima lascia il corpo per queste vie significa che siamo in presenza di una morte di pessima qualità, e dunque Atman raggiunge una cattiva destinazione.

Quali sono gli altri canali dai quali può fuoriuscire l’anima?

Se siamo in presenza di una morte “normale”, l’anima raggiunge una destinazione decente lasciando il corpo attraverso gli “orifizi medi”: naso, bocca, orecchie e occhi. Ma il passaggio in assoluto migliore è costituito dalla fuoriuscita attraverso il punto in cui si incontrano le tre ossa del cranio (le due parietali e l’osso frontale). In questo caso, infatti, l’anima si libera dal cerchio della morte, della vita e della nascita (Samsara). Non parliamo più di morte, ma di vera e propria libertà: l’anima si distacca volentieri dal corpo per raggiungere l’Eterno assoluto.

In questo caso lasciare il corpo significa “abbracciare la morte” con pace e gioia…

Sì, e invece della parola “morte” sarebbe più opportuno utilizzare il vocabolo Moksha (in sanscrito “affrancamento”). Siamo noi che andiamo verso Moksha e la invitiamo presso di noi, non è lei a sorprenderci. Per fare accadere questo dobbiamo allenarci molto, distaccandoci da tutti i desideri e dall’Ego. Dobbiamo prepararci al “grande distacco” come fossimo uno scultore che sottrae piccoli pezzi da un’enorme pietra, al fine di creare una statua meravigliosa.

Il nostro scopo, dunque, è “morire senza morte”. Ma non è umano avere paura di arrivare impreparati all’appuntamento?

Lasciare il corpo per “prenderne” uno nuovo è una forma bellissima di creatività, di pienezza e di gioia, che comporta un modo di pensare fuori dall’ordinario. È una preparazione suprema, un’azione di riposo profondo, non bisogna aver paura. Quando facciamo un viaggio in treno, esso si ferma in coincidenza della nostra destinazione e noi scendiamo, allo stesso modo l’anima deve lasciare il corpo nel momento opportuno. Basta quindi seguire e rispettare il flusso della vita secondo il Dharma.

La morte non va quindi salutata con tristezza…

Non dobbiamo morire con le lacrime, ma lasciare il corpo con volontà e pace. Attraverso uno stile di vita adeguato dobbiamo preservare il corpo dal suicidio, dalle malattie, dalla violenza e da potenziali incidenti. Quando un individuo esaurisce il proprio compito e si avvicina alla vecchiaia, deve abbracciare la morte in modo sano per rinascere in altre vite. Le nostre abitudini nella vita terrena influiranno sulla nostra rinascita: se viviamo bene e siamo felici rinasceremo in modo sano e saggio, se ci comportiamo in modo errato ci incarneremo in modo sbagliato, talvolta terribile.

Cosa succede quando si muore prematuramente per una malattia?

È opinione comune ritenere che la morte debba avvenire senza dolore e fuori dalla coscienza dell’individuo. Ma questo atteggiamento è sbagliato, perché la morte senza coscienza significa dirigersi verso il buio: comporta che la mente rimanga “attaccata” all’anima, che così non viene liberata dal proprio karma. Dobbiamo lasciare il corpo con coscienza, anche perché la prossima vita sarà determinata anche dai pensieri e dai sentimenti che abbiamo partorito negli ultimi momenti della nostra esistenza.

Dove si dirige l’anima dopo essersi liberata dal corpo?

Dopo una morte di qualità bassa (tamasica) l’anima rimane vicina al mondo fisico nel quale ha vissuto, la sua presenza è come quella di un fantasma (in Tamil “Pei”), prova quindi a vivere tra gli uomini, in particolare accanto alle persone conosciute in vita. In una morte normale (rajasica), senza paura, l’anima continua a vivere sulla terra con leggerezza nel mondo mentale, con un corpo energetico, e cerca di incarnarsi nuovamente in modo sano per continuare a vivere e godere sulla terra. Quando un individuo lascia il corpo in modo puro (satvico) la sua anima si dirige verso il mondo astrale e circola libera a lungo, fino a quando i terrestri non avvertono il bisogno di una sua presenza fisica, allora quest’anima si incarna nel corpo di in un santo, un saggio o un maestro, che offre un servizio al mondo senza aspettative né attaccamento.

Lo studio dell’Ayurveda implica anche la comprensione del processo di nascita, crescita, cambiamento, decadimento e morte secondo il principio dei cinque elementi. Dal punto di vista pratico, come possiamo prepararci al “grande appuntamento”?

La destinazione finale della vita è la morte, dunque ogni giorno possiamo dedicare qualche minuto a questo “allenamento” a lasciare il corpo. Ma per superare la paura del dolore, della sofferenza, della povertà, delle malattie e della vecchiaia, è necessario discernere perfettamente cosa è permanente (Nitya) rispetto a ciò che è impermanente (Anitya): distinguendo quindi cosa è eterno e ciò che non lo è. L’anima è eterna, il corpo non lo è, esso muta in modo impercettibile di giorno in giorno.

Ci si può preparare a lasciare il corpo rinunciando al cibo e ai desideri e ascoltando vibrazioni come i mantra, ma la sofferenza di una persona malata come può essere alleviata?

Sembra strano a dirsi, ma la sofferenza fa parte della vita, quindi i sofferenti, tutti, soprattutto gli anziani, devono essere educati a resistere al dolore, per esempio digiunando fino alla partenza definitiva dell’anima dal proprio corpo. In questo caso è il corpo stesso che compie una preparazione spirituale (Sadana) per tornare alle sue origini, alla liberazione.

In quest’ottica, la preparazione alla morte dovrebbe avvenire già nell’età della giovinezza. Tu come sei stato preparato da piccolo?

Secondo la cultura vedica, la preparazione alla morte per un bambino avviene solitamente all’età di cinque anni. Ricordo che a quell’età partecipai a una cerimonia funebre. Mia mamma mi disse che l’anima si era servita di quel corpo morto, poi aggiunse “quando il corpo diventa vecchio l’anima lo abbandona per ricongiungersi con la sua mamma nel cielo più alto”. E poi continuò: “Anche tu un giorno in vecchiaia lascerai il corpo e verrai a trovarmi in cielo”. Allora le chiesi: “Mamma, dov’è il cielo?”. E lei, alzando le mani e la testa verso l’alto mi disse: “Guarda più lontano che puoi, dove non vedi più niente”.

Aggiunse qualcos’altro?

Le domandai “Non ho le ali, come posso raggiungerti in cielo?”. Ricordo ancora oggi chiaramente la sua risposta: “I buoni comportamenti fanno nascere presto le ali, se ti comporti male le ali non nasceranno e rimarrai sulla terra. Quando avrai vent’anni un’ala nascerà dalla tua buona volontà, quando arriverai a quaranta due belle ali nasceranno dall’amore che provi verso gli altri, quando avrai sessant’anni tre ali ti spunteranno dalla felicità, quando avrai ottant’anni avrai quattro ali e sarai chiamato dagli Dei del cielo per raggiungere la pace”.

E tu… cosa hai risposto?

“Mamma, sarò un buon ragazzo e mi lascerò crescere cinque ali per congiungermi presto a te”.

Prepararsi alla libertà ogni giorno
Al mattino presto, prima di meditare o di formulare qualche preghiera, concentriamoci per alcuni minuti sulla libertà dell’anima. Pensiamo a cose bellissime e immaginiamo di lasciar volare il corpo nello spazio come un’energia pura, potenziale, con pace e leggerezza. Ogni giorno gridiamo con gioia: “Io sono la vita e io sono la morte; io sono l’anima e io sono eterno!”.
Noi, giudici del nostro destino
Secondo la mitologia indù Yamadeva è il dio della morte, nato dalla potenza del dio del sole. Egli è il Re della Pitruloka, il luogo dei nostri antenati o origine. Dopo la morte, lo spirito individuale è sottoposto al giudizio di Yamadeva.
Il significato di questo concetto è: il dio del sole simboleggia il puro Atman o la pura coscienza individuale, Pitruloka simboleggia il nostro karma o il risultato delle nostre azioni, mentre Yamadeva simboleggia la coscienza pura dell’individuo dopo la morte. Così, dopo la morte, ogni individuo passa attraverso il giudizio che proviene da se stesso e prende una nuova nascita secondo il suo karma.